Wiggle Side Chair, VITRA

1972. Frank O. Gehry.

L ‘architetto Frank O. Gehry è noto per l‘uso di materiali inconsueti. Con la serie di mobili “Easy Edges” è riuscito nell’intento di dare una nuova dimensione estetica ad un materiale ordinario come il cartone. La forma scultorea della Wiggle Side Chair è il suo tratto distintivo. Sebbene il suo aspetto sia sorprendentemente semplice, è realizzata con la perizia di un architetto esperto, il che la rende non soltanto molto comoda, ma anche durevole e robusta. La Wiggle Side Chair Vitra, rappresenta uno dei primi e più originali tentativi di conferire una nuova forma estetica al cartone, materiale “povero” e non tradizionale. L’insolita idea risale al 1972, quando l’architetto statunitense, non ancora star globale, esplorava le potenzialità estetiche e costruttive di materie d’uso comune e facilmente reperibili, assolutamente inusuali e atipiche nel design. Realizza così alcuni pezzi in cartone ondulato denominati  “Easy Edges”, viti invisibili, bordi in cartone di fibra compressa. L’apparenza non deve trarre assolutamente in inganno: la semplicità dell’aspetto nasconde l’accuratezza dello studio e la perizia della progettazione, è stabile e resistente. La sedia Wiggle Side Chair è composta da circa 60 fogli di cartone, materiale riciclabile in armonia con le nuove esigenze di sostenibilità ambientale. Disponibile in abbinamento con la poltrona il pratico sgabello poggia piedi Wiggle Stool con le stesse caratteristiche della sedia.

Materiali:

Schienale, seduta e scocca: cartone ondulato.

Bordi: pannello di fibra dura.

Colore: naturale.


FRANK O. GEHRY

 

Nato nel 1929 in Canada, è americano di adozione.
Nel 1998 vince il premio Pritzker. Il suo vero cognome è Goldberg, ma l’ha cambiato quando gli è nata la prima figlia: “Da ragazzino, in Canada, mi avevano reso la vita dura, perché ero ebreo. Così, mi sono lasciato convincere a mutar nome per facilitare l’infanzia di mia figlia. Adesso mi dispiace, ma ormai è tardi“. Si laurea in California e incomincia a lavorare nello studio Gruen Associates, dove resta fino al 1960. “In quegli anni – scrive il critico Joseph Giovannini – Gehry conduceva una doppia vita: frequentava gli artisti iconoclasti di Venice, che sperimentavano nuove forme d’interpretazione dello spazio, della luce, della materia. Era il cosiddetto gruppo della Ferus Gallery e perseguivano due scopi: toglier l’arte dal piedistallo ed effettuare interventi quasi architettonici, improvvisati…”.

La poetica di Gehry si forma fuori e contro il rigore formale ed etico dell’architettura del Movimento Moderno: le forme non debbono essere pure né i materiali nobili; ben vengano la volgarità, la frattura, il caos. Ecco Gehry che, come gli artisti pop (tutti suoi sodali: Oldenburg ha addirittura collaborato ai suoi progetti architettonici), pesca nei materiali poveri delle periferie urbane, costruisce con la rete metallica, la lamiera ondulata, trasferisce nell’architettura la ricerca che i suoi amici conducono in pittura e scultura. Il lavoro-summa di quegli anni d’apprendistato (ma siamo ormai nel 1978) è la casa che costruisce per sé‚ a Santa Monica, scoperchiando, sventrando, decostruendo una casa prefabbricata. I vicini s’indignano: rovina l’armonia stilistica del sobborgo; “tipica classe media coi suoi tipici simboli architettonici“, commenta lui, ed aggiunge: “ancora adesso non capisco perché i miei interventi li abbiano tanto disturbati“. La sua fantasia, in altra epoca, sarebbe frenata da problemi costruttivi pressoché insolubili, ma a fare i calcoli che consentono ai suoi pazzeschi edifici di stare insieme e in piedi, adesso, ci pensano i computer. E allora, la fantasia galoppa, i riferimenti si affastellano.

Museo Guggenheim - Bilbao 1997

Per fare il Guggenheim, dice, “ho visto tutto. Il costruttivismo russo, certo, Tatlin, ma anche Malevich, El Lissitsky; e anche Matisse, e anche Moby Dick“.

Ad un giornalista spagnola che gli chiede se ci sia, nella sua opera, qualche influenza picassiana, risponde serissimo: “Credo che la mia opera non sarebbe quella che è se Picasso non fosse esistito“.

A Sol Alameda, corrispondente del Paìs, che gli chiedeva conto della sua sicurezza di sé, dell’audacia che comporta progettare e costruire un monumento “pazzesco” come il museo bilbaiano, Gehry ha risposto noncurante: “Ma, guardi, io non la vedo così. A me sembra una cosa normale“.